Benvenuti a tutti voi, fratelli e sorelle, e benvenuti ai nostri fratelli monaci in questo momento davvero familiare, della celebrazione nella festa di san Benedetto.
Accanto alle parole che abbiamo ascoltato dalla Prima Lettura tratta dal Libro dei Proverbi, possiamo aggiungere una parola presa dalla Lettera agli Ebrei:
«Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l’esito del loro
tenore di vita, imitatene la fede. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!».
Ecco, allora, che celebrare la festa dei nostri padri e delle nostre madri nella fede, alcuni in maniera eccezionale come Benedetto, significa prima di tutto mettersi in questa relazione: ricordarsi, fare memoria.
E ricordarsi di loro, fratelli e sorelle, vuol dire una cosa ben precisa: non dare loro un onore di cui non hanno alcun bisogno, ma ricordarsi che noi abbiamo ricevuto. Pensiamo tutti a una cosa molto semplice, che siamo soliti dire ai bambini del catechismo: nessuno battezza se stesso, ma il sacramento lo riceviamo da un altro, così come la vita fisica la riceviamo da altri.
Allora ricordare i nostri padri e le nostre madri significa ricordarsi che abbiamo ricevuto: non siamo i padroni,
ma i beneficiari di questo immenso dono che è la fede, una fede vissuta, una fede insegnata, una fede praticata.
Certo, essa è sempre la solita, ma ogni epoca ha i suoi modi per viverla e per tradurla nella quotidianità, per questo ogni
generazione deve – diciamo così – fare i conti con se stessa, sorretta dalla Parola di Dio, ma anche dalla propria
coscienza.
Ripetendo una frase dal sapore patristico, si dice che la Bibbia si legge sulle ginocchia della Chiesa. Un’immagine molto bella, che rievoca la maternità della Chiesa stessa, che insegna ai propri figli a leggere la vita. Vuol dire che la Parola di Dio è rivolta alla Chiesa, non a me in particolare; nella Chiesa ci sono anch’io, quindi è rivolta anche a me. Ecco perché dico che ogni generazione deve esser capace di saper fare i conti con la Parola di Dio e con la propria coscienza.
Spesso, ai ragazzi della cresima, quando il ministero episcopale mi porta a conferire loro questo sacramento, faccio questo augurio: Vi auguro di pensare! Di non aver paura di guardarvi dentro, di non paura a entrare in dialogo con voi stessi e a far sì che non siano altri a farlo al vostro posto. È un invito che vale una vita: vale per me che lo sto dicendo, vale per questi fratelli monaci, vale per ciascuno di voi. È quello che sant’Agostino chiamava «il maestro interiore»: allora noi leggiamo la Parola di Dio (o meglio la ascoltiamo o la sentiamo ripetere), nella Chiesa, poi dobbiamo interrogarci dentro noi stessi. I monaci hanno la lectio divina, che in definitiva è questo esercizio di ascolto: di Dio e di noi stessi. E se questo esercizio devono farlo in modo speciale i monaci – il monachesimo, infatti, ha questo di particolare: ricordarsi del primo comandamento, ovvero di amare Dio sopra tutto e tutti; ed è vero che il secondo è simile al primo, ma il primo resta il primo! – essi devono insegnare a noi questa priorità del primo comandamento, educandoci ad ascoltare la Parola e a masticarla, a digerirla.
Se in questo i monaci sono maestri, noi tutti siamo autorizzati a imparare e a diventare a nostra volta punti di riferimento per altri. Impariamo, allora, questo ascolto della Scrittura, e sappiamo poi ascoltare il maestro interiore. Ascoltarlo significa tante cose, ma in ultima istanza è ascoltare la nostra coscienza illuminata dalla Parola di Dio. Oggi è molto facile che questo non avvenga… ci sono tanti mezzi di comunicazione che spesso si sostituiscono all’individuo: questa è la tua opinione, questo è il tuo giudizio o è ciò che altri ti hanno instillato? Pensare allora, pensare! Chi tra voi ha un po’ di anni ricorderà un libro intitolato «I persuasori occulti», una sorta di biscia che si insinua nella coscienza impedendoti di essere te stesso, illudendoti però che tu lo sia! Ecco, le feste dei nostri padri e delle nostre madri, l’eredità enorme che ci hanno lasciato ci aiutino a pensare. E pensare vuol dire, poi, amare e amare vuol dire pensare, perché sono aspetti profondi della stessa realtà cristiana.
È l’augurio che faccio a voi, confratelli monaci: siate maestri con la «m» minuscola, perché il Maestro è uno solo, però maestri, nella Chiesa di Dio, questo sì, della gioia della Parola e insegnatela anche a noialtri.
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Mi permetto di aggiungere una cosa che risale a molti anni fa. Nel 1964 papa Paolo VI si recò a Montecassino per riconsacrare l’abbazia distrutta dalla guerra. E disse queste parole solenni: «Siamo venuti qui come per mettere il sigillo della grande guerra e, Dio voglia, di tutte le guerre!»
Senz’altro Dio lo ha voluto, gli uomini certamente no, perché hanno continuato e stanno continuando a fare la guerra. Allora il nostro ritrovarsi intorno ai padri e alle madri nella fede ci dia anche la voglia di lavorare e di tirarci su le maniche nel proporre strade per la pace! Cosa possiamo fare? Intanto pregare: quello ognuno lo può far sempre! Raccolgo, in tal senso, un invito che viene dalla sapienza cristiana: io non posso far fare la pace in Ucraina o in altri luoghi di conflitto, non sono nessuno, ma posso fare la pace con te! Non scoraggiamoci nel trovare queste occasioni vere della nostra
realizzazione di cristiani. (da registrazione)
+Giovanni