Dio per gli uomini

Essere dono. Dare vita per amore
Settimana della Bellezza 2020 – Museo Diocesano d’arte sacra di Grosseto

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Cristo,

quando salì sulla croce,

era già morto.

E non sentì dolore dei chiodi

né sentì l’anima che si liberava dal sangue.

L’ultimo grido che lanciò al cielo

fu un’invocazione al dolore,

che finalmente vide nella sua corposità

come il demone dell’abbandono.

Castigarono il corpo di Cristo:

lo volevano morto,

lo volevano spento,

lo volevano tragicamente offeso.

E quando Cristo

arrancando sulle ginocchia

si conduceva al patibolo,

non immaginava che la forza del Padre

avrebbe issato per lui

quella croce di cui non era responsabile.

Ed ecco il teatro magnifico della crocifissione,

in cui Dio crocifigge il Figlio

e lo dimostra a tutti.

Ecco il miracolo della contemplazione

di quel volto spento

che suda sangue e preghiere,

ed ecco le tenebre della morte

cadere non su di lui

ma sugli uomini che l’hanno crocifisso.

Ecco il Padre amorevole

che corre in aiuto del Figlio

e squarcia tutte le nuvole

e fa piovere dal cielo

quella manciata di rose

che noi umani chiamiamo cristianesimo.

Alda Merini, Il poema della Croce

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L’opera. La tavola, di cui si ignora l’originaria collocazione, costituiva, con ogni probabilità, la parte terminale di una pala d’altare andata perduta durante le invasioni napoleoniche, se è vero, come dice il canonico Chiarini, che fu oggetto delle ruberie francesi. Quale doveva essere la forma globale del dipinto possiamo solo immaginarlo se confrontiamo la lunetta con altre opere affini diffuse nelle chiese senesi.

Pietro di Domenico realizza la tavola con una precisione quasi maniacale, con un colore terso e smaltato, tipico della sua fase degli anni Novanta, quando sviluppa un linguaggio del tutto personale, dimostrando una chiara apertura verso le novità culturali di fine secolo, in cui si palesa una pittura eccentrica derivante dalla pittura di Luca Signorelli ormai aggiornata verso nuove interpretazioni evidenti a Siena a fine Quattrocento.

L’artista mette in evidenza ogni dettaglio, sia nella resa delle figure – si notino i peli della barba, il torace del Cristo, le vene in rilievo delle braccia – che nel paesaggio, impostato secondo una rigorosa prospettiva e punteggiato di alberi, animali, figurine, architetture. Notevole è la cura che il pittore dedica a dipingere i giardini dello sfondo, luoghi compiuti e meticolosamente immaginati, dove tutto è distribuito con armonia e rigore, secondo una visione di perfezione tipicamente rinascimentale.

Pietro di Domenico si rivela ottimo interprete della profondità prospettica, ottenuta con l’accurata definizione geometrica e con la disposizione speculare dei due santi che si affiancano al sarcofago, correttamente scorciato, da cui si erge la figura di Cristo.

I due santi alla destra e sinistra di Cristo sono san Crescenzio e san Rocco. Quest’ultimo è uno dei santi più venerati in Italia, perché protettore contro le pestilenze. La sua storia di taumaturgo ha inizio ad Acquapendente (VT), dove era giunto nel luglio 1367. Qua, ignorando i consigli della gente in fuga per la peste, Rocco chiese di prestare servizio nel locale ospedale. Tracciando il segno di croce sui malati e invocando la Trinità di Dio sugli appestati, san Rocco diventò lo strumento di Dio per operare miracolose guarigioni. Ma il più famoso avvenne a Roma dove Rocco guarì un cardinale malato di peste dopo aver tracciato sulla sua fronte il segno di Croce.

Fu proprio questo cardinale a presentare san Rocco al pontefice. Ripartito da Roma, viaggiò per molte località d’Italia fino a giungere a Piacenza dove, durante la sua opera di conforto e di assistenza ai malati, scoprì di essere stato colpito lui stesso dalla peste. Rifugiatosi in un bosco vicino al fiume Trebbia, fu assistito da un cane che lo salvò dalla morte per fame, portandogli ogni giorno un tozzo di pane. San Crescenzio vescovo invece fu tra i discepoli di san Paolo e il suo nome si incontra nella Seconda Lettera a Timoteo (4-9). Partì da Roma per la Gallia, per poi proseguire per la Germania dove fondò la Chiesa di Magonza.

La figura di san Crescenzio fu certamente cara alla comunità di Grosseto in quanto ricordava il proprio vescovo omonimo che aveva preso parte al Concilio Romano indetto nel 1037 dal pontefice Benedetto IX (papa dal 1033 al 1044) sottoscrivendosi come “Crescentius Rosellensis Episcopus”. Poiché fu un Concilio importante, volto a richiamare il vescovo di Perugia, Andrea, all’obbedienza e al rispetto delle disposizioni ecclesiastiche in materia di giurisdizione dei monasteri, era un orgoglio civico avere avuto un proprio presule in quel consesso.

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