Venerato vescovo Rodolfo,
cari sacerdoti e diaconi,
cari fratelli e sorelle,
carissimi Claudio e Simone,
ecco prima di tutto una felice coincidenza: la prima lettura di questa Messa domenicale ci racconta l’istituzione dei diaconi. Non l’abbiamo scelta noi; è la Parola che tutta la Chiesa oggi ascolta e medita. È la prima comunità cristiana che muove i primi passi e noi veniamo dietro quei primi passi, siamo gli eredi di Pietro, dei dodici; ai nomi di Stefano, Filippo, Nicanore, di Nicola proselito di Antiochia, umilmente ma realmente possiamo aggiungere anche i nostri nomi, poiché lo Spirito santo effuso su di loro è lo stesso effuso su di noi ed è lo stesso che tra poco effonderò su voi, Claudio e Simone.
Ricordiamo anche che prima dell’elezione dei diaconi ve n’è un’altra ancora più importante: al posto di Giuda viene scelto Mattia, che viene – dicono gli Atti – “associato ai dodici” (At 1,26). E fondamentale è la condizione che l’apostolo Pietro chiede per poter eleggere un nuovo apostolo: uno che sia stato con noi e che divenga, insieme con noi, testimone della resurrezione di Gesù (cfr At 1,21). È la successione apostolica, nei vescovi, ma anche nei ministeri che coadiuvano i vescovi stessi: il presbiterato e il diaconato, prima di ogni altro, che partecipano della stessa sacramentalità. Così ci dicono le preghiere dell’ordinazione. La parola successione, però, ne richiama un’altra, sulla quale vorrei attirare la vostra attenzione: eredità. L’apostolo Paolo – lo ricordiamo – la rivolge a se stesso, quando dice: «A voi ho trasmesso ciò che anch’io ho ricevuto: cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture, che apparve a Pietro e quindi ai dodici» (1Cor 15,3-5). E proclama anche la fedeltà nel trasmettere quanto ha ricevuto: in un altro passo dice «io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: che il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane…» (1Cor 11,23).
Tradizione e successione apostolica sono strettamente legate fra di loro. Noi stasera trasmettiamo, attraverso la successione apostolica, un ministero, che poi deve essere inserito nella tradizione apostolica: voi, infatti, cari diaconi futuri, dovrete insegnare ciò che a vostra volta vi è stato detto e insegnato.
La tradizione e la successione apostolica ci insegnano che la Parola che abbiamo ricevuto non è nostra, però la dobbiamo dire noi: è, se volete, il dramma del cristianesimo. Un dramma magnifico, avvincente, ma sempre un dramma, coi suoi rischi, che non possiamo nè vogliamo dimenticare.
Il primo rischio è che la Parola diventi solo nostra; Gesù lo farà notare ai farisei: «per la vostra tradizione avete annulla la parola di Dio> (cfr Mt 15,1-9). Per evitare questo pericolo è necessario un continuo discernimento, che la quotidiana frequentazione della Scrittura certamente ci insegna. E questo lo farete – Claudio e Simone – con la fedeltà alla Liturgia delle Ore.
Un secondo rischio, più sottile e perciò più pericoloso, mi sembra quello che considera la Parola di Dio come diretta esclusivamente a me, in un rapporto quasi solipsistico fra Dio e l’individuo. Non dobbiamo, invece, mai dimenticare che Dio parla alla Chiesa, anzi «alla sposa del suo diletto figlio», come si esprime la Dei Verbum, e siccome nella Chiesa ci sono anch’io, parla anche a me. Dimenticare la Chiesa in questo ascolto, rischia di trasformarsi in una sorta di autismo religioso, che porta la persona a costruirsi un Dio a propria immagine e somiglianza e non viceversa. Il segnale rosso di questo rischio mi sembra la incapacità di pregare insieme con gli altri, addirittura il rifiuto di celebrare assieme con la Chiesa, nella quale – torno a ripeterlo – ci sono io con le mie caratteristiche e la mia storia, che si forma, però, insieme a quella degli altri. Ricordiamo quanto ci ha detto san Pietro: «Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce» (1Pt 2,9).
Un altro rischio è sicuramente quello di non trovare (e non cercare) le parole umane più giuste e appropriate per trasmettere quella Parola. È il fondamentalismo biblico. Oppure trovare parole troppo umane, che annacquano la Parola di Dio. Dramma magnifico e avvincente, dicevamo, per cui vogliamo fare nostra l’espressione di san Paolo: «Guai a me se non predicassi il Vangelo» (1Cor 9,16). Lui lo diceva di se stesso, noi che abbiamo avuto un ministero – vescovi, presbiteri, diaconi – ddobbiamo dirlo a noi stessi, e tutti i cristiani lo devono dire, perchè ognuno potrà predicare il Vangelo secondo i modi e le circostanze che sono possibili. Per cui possiamo essere certi che le opportunità offerte dalla Parola di Dio sono maggiori e più grandi dei rischi.
E quali opportunità il Vangelo di oggi ci mette davanti? Ci mette davanti l’opportunità unica e irripetibile di conoscere Gesù e, attraverso di Lui, con l’effusione dello Spirito, conoscere Dio Padre. Gesù è la porta attraverso cui passano le pecore; Gesù è la vita che si trasmette a noi in abbondanza; Gesù è la via che ci conduce al Padre. Questo ci ha detto il Vangelo di stasera attraverso la bocca stessa di Gesù.
Certamente l’umanità ha conosciuto e conosce molte strade, che conducono a considerare il mistero di Dio: sono degne di rispetto. Ma la via che conduce dentro il mistero di Dio, dentro la vita del Dio uno e trino è solo Gesù! Attraverso di Lui noi possiamo conoscere, per quanto ci è dato, il mistero del Dio uno e trino.
Allora, cari Claudio e Simone, parlate del Signore Gesù! Non stancatevi mai di parlare di Lui e ricordate quanto ci dice Evangelii Gaudium: «Non si può perseverare in una evangelizzazione piena di fervore se non si resta convinti, in virtù della propria esperienza, che non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù e non conoscerlo; che non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a tentoni; non è la stessa cosa poterlo contemplare, adorare e riposare in Lui o non poterlo fare. Non è la stessa cosa poter costruire il mondo col suo Vangelo piuttosto che farlo unicamente con la propria ragione» (EG n.266).
La predicazione del Vangelo si fa non solo con le parole, ma anche con gesti e opere opportuni, magari anche silenziosi perchè è sempre vero il «non sappia la tua destra cosa fa la tua sinistra» (Mt 6,3) e il «non suonare la tromba davanti a te» (Mt 6,1). Quei gesti però non sfuggono al Padre, «che vede nel segreto». Abbiamo sentito gli Atti degli apostoli, che ci trasmettono l’avvenimento della istituzione dei diaconi nella chiesa di Gerusalemme per il servizio delle mense. Servizio oggi è una parola logorata dall’uso che ne viene fatto: significa molte cose e anche molto diverse fra loro. Forse con una punta di ironia l’evangelista Luca annota che «anche i grandi si fanno chiamare benefattori» (cfr Lc 22, 25)… È inevitabile conseguenza del tempo che passa e delle circostanze diverse della vita. Con la Parola di Dio possiamo, però, recuperare il significato vero e profondo di servizio: quello di una convinta e gioiosa adesione alla volontà di Dio, che la tradizione apostolica e la comunione ecclesiale ci indicano e ci insegno.
La tradizione della Chiesa ci ricorda che ogni vero servizio nasce da una rinuncia: la rinuncia a se stessi. È la logica del battesimo, che – tutto lo ricordiamo – inizia proprio con una rinuncia. È la condizione evangelica per poter far festa: come il mercante che trova la perla più preziosa e rinuncia alle altre (cfr Mt 13,45-46); come il contadino, che trova il tesoro nascosto nel campo e vende tutto per acquistare quel campo (cfr Mt 13, 44). La comunità ecclesiale ci insegna che quel servizio alle mense deve essere interpretato o, come si dice oggi, contestualizzato: cosa significa servire alle mense nella nostra società e nella nostra Chiesa? Certamente significa venire incontro ai bisogni del prossimo, certo! Ma non solo con un pezzo di pane anche se questo tante volte è la prima necessità. Non vogliamo, infatti, dimenticare che la parola che esce dalla bocca di Dio, come ci insegna Gesù (cfr Mt 4,4), è il vero nutrimento di ogni persona. Ed Evangelii gaudium ci ricorda: «L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in una attenzione religiosa privilegiata e prioritaria» (n.200)
Cari figlioli,
tra poco vi verrà consegnato il libro dei Vangeli con le impegnative esortazioni e parole: “Credi sempre ciò che proclami, insegna ciò che hai appreso nella fede e vivi ciò che insegni». Ho accennato, all’inizio, ai primi passi della comunità cristiana. Essi sono accompagnati da una presenza materna e orante, che non è mai venuta meno. Dicono gli Atti: «Essi tornarono a Gerusalemme dal monte detto degli ulivi ed erano perseveranti e concordi nella preghiera insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù» (At 1,14). Essa, la madre della Grazia, cioè di Gesù che è la vera grazia di Dio, in Lui diventa la Madre delle grazie, cioè di tutte quelle circostanze in cui la Chiesa, il popolo cristiano, ogni persona può ricorrere a lei. E alla sua materna preghiera e intercessione di tutti noi affidiamo, cari diaconi, il vostro ministero. Vi auguro che possiate ripetere con verità, per tutta la vita, nell’apostolato quotidiano spesso silenzioso e nascosto, le parole di Paolo a Timoteo: «So, infatti, di chi mi sono fidato (…) e sono convinto che egli è capace di custodire fino all’ultimo giorno ciò che mi è stato affidato.» (2Tm 1,12). È anche l’augurio di tutto il popolo cristiano qui presente, che per bocca mia vi rivolge: Colui che ha iniziato in voi l’opera sua la porti a compimento. Amen!
+Giovanni