7 giugno 2024, festa del Sacro Cuore

“Portate la comunione, fate la comunione!” L’omelia nella Messa per l’istituzione di nuovi Accoliti

Basilica del Sacro Cuore, Grosseto

Accogliamo la presentazione (dei candidati all’accolitato) che è stata fatta e riflettiamo insieme sulla festa che celebriamo.

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Saluto il caro vescovo Rodolfo, voi sacerdoti e diaconi e tutti voi fratelli e sorelle.
Porto il saluto di don Desiderio Gianfelici, che per un lutto familiare non può essere qui presente. Mi ha chiesto esplicitamente di portare il suo saluto e la sua presenza spirituale a questo momento. Lui sta pregando per noi mentre siamo qui a celebrare.

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Festa del Sacro Cuore, prima di tutto.

“Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto”, abbiamo sentito dal Vangelo di Giovanni (19,37), che attualizzano la misteriosa profezia di Zaccaria e illuminano e rendono ragione della festa di oggi: il cuore di Gesù donato a noi, quel cuore che freme di compassione, secondo le parole di Osea.
Certamente, fratelli, noi possiamo volgere lo sguardo verso una persona per tanti motivi e con tanti atteggiamenti: questo è successo e succede anche per Gesù. Rimanendo nel racconto della passione, noi possiamo notare persone curiose, che potevano essere come Erode Antipa – secondo il racconto di Luca – che voleva vedere lo “spettacolo” di Gesù che compiva qualche prodigio. Gesù – nota l’evangelista – non gli rispose nulla (cfr Lc 23,9). Possiamo notare persone che forse avrebbero fatto volentieri a meno di incontrarlo, come Ponzio Pilato: un problema in più… Possiamo notare persone capitate lì per sbaglio, come Simone di Cirene; persone che odiavano Gesù e lo insultano e lo sfidano: “Ha salvato altri, salvi se stesso…” (Lc 23,35); “scenda dalla croce e gli crederemo” (Mt 27,42).

Ma certamente il nostro sguardo si ferma sulle persone che lo amavano e che piangevano per lui. E tra le donne che piangevano, una in particolare, il cui sguardo è sicuramente unico: la fede del popolo cristiano ha riassunto con un nome quello sguardo, l’Addolorata. C’è Giovanni l’evangelista, che riceve un mandato del tutto speciale e dal quale la Chiesa si è sempre sentita rappresentata: “ecco la tua madre” (Gv 19,26). C’è il buon ladrone, così lo chiama la tradizione cristiana: egli esprime la sua fede al Crocifisso ricevendone la magnifica promessa “Oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,43). Ci sono Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, con la loro pietà così umana. C’è il centurione romano, che confessa: “veramente quest’uomo era figlio di Dio” (Mc 15,39). E finalmente ci siamo anche noi.

Sotto la croce di Gesù questo via vai di varia umanità si è espresso allora, si ripete oggi e si ripeterà sempre.

Ci siamo anche noi, fisicamente e cronologicamente lontani dal Calvario, ma coinvolti fino in fondo in quella vicenda. Questa varia umanità, questa differenza di situazioni e di relazioni con Gesù c’è sempre stata nella storia, c’è oggi e ci sarà sempre. Noi ci siamo, senza cercare attenuanti – Io non c’ero – né facili discolpe – io non ero in piazza a gridare Crucifige – …lo abbiamo fatto dando la colpa ai romani, dando la colpa agli ebrei…è una storia lunga.
Ci vengono in soccorso le struggenti parole di Paolo VI, di cui abbiamo celebrato la memoria pochi giorni fa, nel suo pellegrinaggio in Terra Santa, sul Calvario:

“Siamo tornati qui, Signore Gesù.
Siamo venuti come colpevoli che ritornano al luogo del loro delitto (…), ma il nostro dolore non sia né vile né temerario, ma umile; non sia disperato, ma confidente; non sia inerte, ma orante; si unisca a quello di Gesù”

Allora insieme volgiamo il nostro sguardo al cuore aperto del Signore Gesù. Insieme tutti noi come popolo di Dio santificato dai sacramenti scaturiti dal costato di Cristo – come si esprime il prefazio che reciteremo – siamo chiamati ad attingere con gioia alla sorgente della salvezza.
Ci stringiamo attorno a un cuore aperto, che ci ha amato al di là di ogni nostro merito e di ogni nostra aspettativa. E così comprendere il progetto eterno di Dio che egli ha attuato in Gesù Cristo nostro Signore, nel quale noi abbiamo la libertà di accedere a Dio in piena fiducia mediante la fede in lui. Così ci insegna san Paolo nella seconda lettura.
Tutti insieme; ripeto ancora questa parola: insieme! Ci insegna la Chiesa: “In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la giustizia. Tuttavia Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame fra di loro, ma volle costituire di loro un popolo che lo riconoscesse secondo verità e lo servisse nella santità” (LG)

Noi siamo questo popolo! Noi facciamo parte di questo popolo, in cui fioriscono tanti doni e ministeri, proprio perché si possa servire Dio nella verità e nella santità.

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Questi nostri fratelli che prima sono stati chiamati e sono qui davanti a noi, sono invitati a ricevere un dono e un ministero nella Chiesa.

Dono e ministero, dono e servizio: questi due aspetti non vanno separati. Ogni dono nella Chiesa – matrimonio, Ordine, vita religiosa e qualsiasi altro dono che possiamo immaginare – diventa ministero, perché – ci ricorda san Paolo – ogni dono è dato per l’utilità comune (1Cor 12,7). Dal dono deve scaturire il ministero.

Anche il vostro accolitato, cari Marco, Luca, Roberto, Enrico, Guglielmo, Giacomo e Aldo, è un dono e un ministero, che trova nell’Eucaristia la sua più vera e più alta motivazione. Siete chiamati al servizio dell’altare, a distribuire un pane che non è vostro. Voi non donate qualcosa di vostro, ma è un dono che voi stessi avete ricevuto e che con umiltà -direi quasi in punta di piedi – distribuite agli altri membri del popolo di Dio. Per questo preghiamo che possiate crescere continuamente nella fede e nella carità per la edificazione dl regno di Dio e la vostra vita sia degna del servizio alla mensa del Signore e della Chiesa.

Tra questi membri della Chiesa vi raccomando in modo particolare gli ammalati in qualunque modo lo siano: nel corpo, nell’anima o in entrambi questi elementi della nostra vita. Portare l’eucaristia ai malati fa parte del vostro ministero. Ma c’è un’espressione bella che vorrei sottolineare e che siamo soliti usare: portare la comunione ai malati. Riflettiamo sulla verità e bellezza di questa espressione: la comunione eucaristica con Gesù costituisce la comunione con la Chiesa e la comunione con la Chiesa rende possibile la comunione con Gesù, poiché è la Chiesa che celebra l’Eucarestia con il popolo riunito, il vescovo, i presbiteri, i diaconi e tutti gli altri ministeri e da questa Chiesa e dal suo capo, che è Gesù, nessuno potrà mai separarci: né la malattia, né la distanza fisica. Allora portare la comunione non significa solo portare l’Eucarestia, ma anche incontrare la persona ammalata, bisognosa, in difficoltà e fare comunione, attraverso Gesù, con lei, con le sue necessità, con la sua storia, con la sua spiritualità.

Fare comunione: io vi affido specialmente questo compito al servizio dei vostri parroci nelle comunità parrocchiali, ma a servizio della diocesi, perché la parrocchia non è altro che una espressione della diocesi: portate la comunione, fate la comunione.

E’ l’augurio che il vostro vescovo e tutto il popolo di Dio vi rivolge e che scaturisce dalla lettera agli Efesini ascoltata nella liturgia della Parola: “Cari fratelli, che cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”.

Se questo vi sforzerete di fare nella vostra vita di accoliti, ne godrà la madre Chiesa, sarà edificato il popolo cristiano e voi avrete raggiunto la vostra vocazione e lo scopo per cui stasera il Signore, attraverso le mie mani, vi affida il corpo stesso di Cristo, l’Eucarestia, che poi è il corpo stesso della Chiesa.

Amen!

+Giovanni

(da registrazione)

 

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