“Le grazie di Maria: segni perché ci innamoriamo ancora di più di Dio”

Rinnovo anzitutto i saluti a tutti voi qui presenti, anche le autorità, a tutti i fedeli e ringrazio il vostro vescovo, monsignor Giovanni, anche il vescovo emerito, monsignor Rodolfo, il Vicario generale don Paolo Gentili per l’invito a partecipare a questa bellissima e significativa solennità.

Per me è una grande gioia poter celebrare la Madonna insieme a tanta gente che le vuole bene. Ed è sempre una piacevole scoperta vedere i tanti modi in cui Maria è amata e venerata in modo particolare in ogni parte d’Italia. Potremmo dire che ogni diocesi, ogni paese, ogni città ha comunque la «sua» Madonna e ci tiene alla «sua» Madonna. Del resto – se permettete un piccolo accenno personale – io ho tre nomi: mi chiamo Carlo, Roberto, Maria, ma tre nomi ce l’hanno anche mia sorella e i miei due fratelli. E il motivo è che i miei genitori, per non litigare, han detto: il primo nome lo scelgono i genitori, il secondo i padrini, così nessuno può dire niente. E il terzo sarà Maria, sia ai maschi che alla femmina, perché la Madonna va sempre bene e c’è bisogno che benedica tutti noi. Il nome «Maria» mi ha creato qualche problema perché sul diploma di maturità ci avevano scritto Mario e anche sulla patente: non ho dovuto rifare l’esame, ma insomma… ho avuto qualche problema burocratico…E però sono contento di questo nome, ricordare Maria.

Ed è una grande gioia anche ricordare, come diceva il vostro Vescovo, i cinquant’anni della vostra Caritas diocesana. So che siete impegnati a creare una nuova struttura ancora più accogliente, più bella, più attenta ai poveri. E anche qui spesso, quando parlo alle Caritas in giro nella mia diocesi, ma anche nelle diverse diocesi italiane, dico quanto è importante per gli ultimi, per i poveri, la bellezza, l’accoglienza.
Allora, ovviamente con tutto il rispetto e anche l’apprezzamento per quelle parrocchie o quelle piccole realtà che magari hanno il centro di ascolto della Caritas in un sottoscala un po’ umido, appena è possibile avere un bell’ambiente è una cosa di attenzione verso di loro, perché la carità è anche bellezza, lo sappiamo, ed è un messaggio davvero molto importante. La Caritas esiste e non solo da cinquant’anni perché – ricordava appunto il vostro vescovo – è coesistente con la stessa Chiesa e ancora prima e c’è perché la vita cristiana è basata sull’amore e la parola di Dio di quest’oggi – non l’abbiamo scelta, ma è quella che ci viene offerta dalla liturgia – direi che ha proprio per tema principale l’amore.

E riflettendo su questo mi è venuto spontaneo riflettere su un piccolo episodio che mi è capitato proprio tre giorni fa. Sono stato invitato da
un’associazione davvero molto impegnata, l’Anffas – ente che da decenni segue gli adulti con problemi di disabilità e anche le loro famiglie – a visitare una bella e nuova struttura, che hanno da poco preparato. Ho visto una bella realtà, molto attrezzata, che utilizza per questi adulti con gravi problemi di disabilità un po’ gli elementi tradizionali (hanno un piccolo laboratorio di ceramica, fanno un po’ di disegno, hanno un piccolo orto dove coltivano i fiori), ma hanno anche dei sistemi molto innovativi. Mi han fatto vedere questi adulti che giocano a baseball con una specie di playstation. I responsabili di quel centro mi hanno detto, con molta soddisfazione, che hanno un bell’apprezzamento del territorio e che riescono a garantire tutti questi servizi grazie a tante offerte che molte imprese, ma  anche molti privati tanto danno loro. A
quel punto ho detto loro: «È una bella cosa! State facendo un grosso piacere a queste persone». Mi hanno guardato un po’ perplessi. «In che senso facciamo loro un piacere? Sono loro che ci danno le offerte». Eh sì, perché dare la possibilità alle persone di fare del bene è realizzare la cosa più vera, più profonda che abbiamo dentro di noi. Se Dio ci ha creato a sua immagine e somiglianza e se Dio è amore, quando abbiamo l’occasione di amare, siamo felici. E lo dice molto bene Paolo nel libro degli Atti, citando una frase di Gesù che non c’è nei Vangeli, ma è di
Gesù: c’è molta più gioia nel dare che nel ricevere.

È proprio vero. E ciò che allora Gesù ci propone come un comandamento, -anche questo importante ricordarcelo- non è un’aggiunta, un supplemento alla nostra realtà: come dire… la mia vita ha tanti impegni e ogni tanto, se capita, faccio una cosa buona. No, l’amore vale sempre. Qualche volta potremmo essere forse imbrogliati da quella parola «comandamento», quasi interpretandolo in termini moralistici: il Signore mi comanda di amare, allora devo amare. Quando sono bravo o brava, cerco di farlo. Eh no, i comandamenti nella Bibbia sono realtà che non vengono sentite come un’imposizione da parte di Dio, ma come un’indicazione preziosa per realizzare la propria vita, la propria realtà. Nella Bibbia, più volte il popolo di Israele si vanta di avere i comandamenti. Non dice: «Purtroppo Dio ci ha dato i comandamenti», ma «per fortuna ce li ha dati». Ecco, il comandamento allora non è un’imposizione, un’indicazione moralistica, ma una un’indicazione
per vivere e realizzarci. E se siamo creati a immagine dell’amore, dobbiamo realizzarci amando.

Certo, dicevo, non solo compiendo alcuni gesti che pure sono importanti – e penso che la Caritas anche da voi aiuta proprio in questa promozione e testimonianza della carità – ma anche nella vita quotidiana: nelle relazioni familiari, sociali, nella professione, nelle realtà che ci impegnano, nelle attività, nelle diverse circostanze, perché sempre comunque dobbiamo amare, perché il comandamento vale sempre e non è qualcosa appunto, da riservare a Natale, quando siamo tutti più o meno buoni o da riservare soltanto ai volontari della Caritas. Anche qui, se posso fare un riferimento personale: sapete che sono vescovo di Gorizia, città dove c’è ancora una presenza, seppure molto ridotta
rispetto al passato, dell’Esercito. A volte ho l’occasione di celebrare delle messe per i militari. Mi è capitato di dir loro: «Guardate che il comandamento dell’amore vale anche per l’esercito e vale anche in guerra – speriamo non succeda – Non è che si può sospendere il comandamento dell’amore! Vale sempre». Per fortuna molti lo comprendono e con molta attenzione e con anche molto impegno. Anche qui
permettetemi un altro accenno di una mia vicenda personale: mi capita spesso, non so se anche da voi, di celebrare il sacramento della confermazione degli adulti. Da noi adesso no, ma anni fa si era molto distanziato la prima comunione dalla Cresima per cui molti poi si perdevano.. per fortuna però diversi adulti ritornano e io dico a chi lo desidera di scrivermi. Di solito mi scrivono anche cose interessanti, non solo «sono contento/contenta di fare la cresima». Alcuni anni fa, una giovane signora, che stava per ricevere la cresima, mi ha scritto che aveva capito che il suo mestiere era il modo di amare le persone. Ma vi leggo proprio la frase che mi scrisse: «Lavoro come parrucchiera, sono entusiasta del mio mestiere perché mi permette di essere a contatto con le persone, dando loro la mia creatività sulle loro acconciature, rendendole felici». Ha capito tutto questa signora! Si rende felici anche con questo mestiere, rendendo belle le persone. In un certo senso – le ho detto – lei non ha ancora ricevuto il dono dello spirito della Cresima, ma era lo spirito che le aveva suggerito quella riflessione. Perché? Perché è lo Spirito che guida la Chiesa, che ci insegna l’amore di Dio, anzi che è l’amore di Dio nei nostri cuori. E lo Spirito – l’abbiamo sentito nella prima lettura, che in realtà è una sintesi del capitolo 11 degli Atti dove Pietro in casa del centurione Cornelio, fa un po’ fatica ad accettare che un pagano diventi cristiano – mentre ancora lui sta parlando, scende su questo pagano e sulla sua famiglia per dire a Pietro che appunto il messaggio del Vangelo vale davvero per tutti.

Ma si può amare solo perché si è amati. E ce l’ha detto nella seconda lettura l’apostolo Giovanni l’evangelista: «Perché in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati».
Ecco, penso – immagino siate d’accordo anche voi – che molti guai nel mondo, molto egoismo, molte chiusure, molti giudizi non derivano da cattiveria, ma derivano dal non sentirsi amati. Perché se nessuno mi ama, devo io pensare a me stesso; devo io cercare a tutti i costi la mia realizzazione nei soldi, nel potere, nell’essere primo, nel valere qualcosa, nel farmi notare, perché solo chi è amato è in pace e può amare
e servire gli altri con umiltà, con serenità e anche con gioia.

E come allora non pensare a Maria, colei che si definisce «l’umile ancella del Signore», che lo magnifica perché nella sua umiltà Dio l’ha amata e ha fatto in lei grandi cose? Il Magnificat è proprio questa consapevolezza di sentirsi amata. A lei, in particolare, in questa sua bellissima immagine che è venerata nella vostra cattedrale e che è stata da poco riportata al suo originario splendore, so che vi rivolgete sempre per chiedere le grazie. Le grazie sono un segno dell’amore del Signore, un segno concreto che parte dai nostri bisogni (la salute, il benessere della propria famiglia, le preoccupazioni per i figli, il lavoro). Le grazie sono un segno e non la pienezza della realtà dell’amore di Dio, che tramite Maria giunge a noi.

Sono un segno. Ed è importante accorgersi dell’amore di Dio e avere coscienza dei suoi doni. Qualche volta – ma parlo anzitutto per me – noi somigliamo un po’ a quei bambini che quando hanno un dono, un regalo, sono attirati da quello e si dimenticano di guardare e di ringraziare chi gliel’ha donato. O, se volete un’immagine più classica, ce la ricorda Sant’Agostino: noi tante volte con Dio siamo come quella sposa che
si innamora dell’anello e non dello sposo. L’anello, che è segno di amore, invece di essere solo segno, diventa qualcosa che distrae… E allora le grazie di Maria sono dei segni perché ci innamoriamo ancora di più di Dio, perché ci sentiamo amati da lei.

E mi ha molto colpito il fatto che la vostra Madonna delle Grazie sia una donna incinta, una mamma in attesa di un bambino e di quel bambino: è il segno che il dono più grande che lei ci può dare è lo stesso Gesù. Lo chiediamo nella Salve Regina per il futuro: mostraci
dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del tuo seno. Ma già da ora dobbiamo chiederlo.

Maria incinta è anche il segno della Chiesa, della comunità cristiana, cioè di noi chiamati a generare Cristo nell’umanità. Lo si genera con l’annuncio della Parola, con i sacramenti e con la carità, con quei gesti concreti della carità, che tutti e non solo chi opera nella Caritas, è chiamato a vivere amando perché si è amati.

Allora, un caro augurio alla vostra bella comunità diocesana, guidata dal vostro Vescovo, dai vostri pastori e che Maria, la Madonna delle Grazie, ottenga per voi un ancora più intenso amore per Dio, per i fratelli e sorelle e soprattutto per gli ultimi: ultimi per noi, ma non certo per Dio. (da registrazione)

+Carlo Roberto Maria Radaelli

Arcivescovo di Gorizia; presidente di Caritas Italiana

 

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